L'orientamento psicodinamico nella riabilitazione del paziente psicotico


Punto di partenza di qualsiasi processo riabilitativo è indubbiamente la fiducia nel cambiamento, la visione non cristallizzata della natura umana e della schizofrenia.

Come enunciò Eraclito, la vita è un continuo divenire. Il cambiamento è l'essenza stessa della vita ed il cristallizzarsi nel tempo dei pattern comportamentali è l'espressione più eclatante della malattia mentale.

Le risposte istituzionali si sono ampiamente dimostrate incapaci di affrontare adeguatamente il problema psichiatrico, essendo intessute di quella logica dell'esclusione che sottende il progressivo deterioramento della persona. Ma anche una negazione maniacale e onnipotente della sofferenza e della necessità di interventi tecnici, che sottolinei solamente una responsabilità politico-sociale e che rimandi tutto ad un generico "territorio", non è che l'espressione diametralmente opposta, ma di uguale significato, della risposta istituzionale.

La Comunità Terapeutica si pone come realistica, anche se complessa, possibilità di superamento tanto dell'immobilismo quanto dell'approccio medico specialistico in quei casi in cui una struttura aperta e flessibile appare come indispensabile alternativa, tanto all'abbandono quanto all'istituzionalizzazione.

Ma perché sia effettivamente efficace e alternativa, essa deve avere precise caratteristiche che la configurino come crogiuolo della trasformazione che si vuole operare.

Evitare l'acquisizione aprioristica di una tecnica operativa senza un corrispondente, anzi un precedente, lavoro di insight e di elaborazione dei propri vissuti nel rapporto con lo psicotico, è difficile soprattutto per le ansie suscitate nel personale di riabilitazione che non può trincerarsi dietro la maschera che un ruolo ed un falso sapere possono concedere, e si deve impegnare nel rapporto con l'ospite con tutta la propria autenticità, attingendo alle proprie caratteristiche risorse, alla personale creatività. Non usando difensivamente nel rapporto il proprio ruolo, ognuno crea rapporti autentici e pertanto reciprocamente trasformativi.

Non si creda tuttavia in una possibilità terapeutico-riabilitativa di uno spontaneismo: in realtà una gestione effettuata in un'ottica psicodinamica ha una logica portante, operativa e strutturale, profondamente radicata, che costituisce un invisibile nesso fra tutti i momenti di vita comunitaria e fornisce un metodo ben più incisivo del saper fare che è il saper essere.

Ma esiste anche la necessità di una conoscenza, una cultura specifica che ogni operatore trasformerà creativamente in un "essere insieme".

E' pertanto indispensabile aver ben chiari alcuni concetti sui processi mentali nella patologia schizofrenica e nelle psicosi e sull'operatore della salute mentale. E' necessario anche che i concetti siano essenziali, cioè pochi ma basilari, essendo impossibile precostituire tutte le risposte alle innumerevoli situazioni che ogni operatore affronterà di fronte alle poliedriche espressioni della psicosi. Sarà pertanto indispensabile costituire un sapere uniforme, una visione condivisa, ma soprattutto un "essere", cioè una modalità di porsi che sia al tempo stesso esistenziale e tecnico-operativa. Per questi motivi si è privilegiata una chiave di lettura e di intervento di tipo psicodinamico. Non si vuole proporre qui una psicoterapia od una psicoanalisi all'interno di una istituzione, ma la lettura psicodinamica della struttura comunitaria e del suo funzionamento in rapporto alla patologia mentale.

Lo psicotico allucina e delira onnipotentemente un mondo che egli può costringere ad obbedirgli ed amarlo mentre si comporta nel modo più ostile e distruttivo. La psicosi è il tentativo di distruzione di una realtà che spaventa e costringe ad un ritiro autistico. Lo psicotico ha scelto di vivere una dimensione fantastica personale dell'esistenza, ma questa fuga è possibile solo attraverso la distruzione della realtà. Egli si trova costretto a scegliere l'annullamento dei nessi logici o del rapporto pensiero-emozioni (dissociazione), il distacco dalla realtà a favore della fantasia onnipotente (autismo), come alternativa al suicidio, che purtroppo rimane sempre una possibilità che pende come la spada di Damocle sulla sua testa.

Pertanto, l'atteggiamento più coerente  di chi opera nell'ambito della patologia psicotica non può essere soltanto la pietà, quanto il coraggio e la profonda disponibilità affettiva, unita ovviamente ad una seria preparazione clinica, che permetta di sfruttare la più piccola crepa di ogni fortezza vuota per inserire un pur piccolo cuneo di rapporto umano costruttivo. Dietro la psicosi si nascondono infatti un'enorme pulsionalità ed affettività rimossa, negata, che deve essere aiutata a fluire nuovamente nel torrente esistenziale.

Come ricorda M. Marà, che rivalorizza il metodo di M. Jones della comunicazione reciproca, della leadership multipla, dell'apprendimento sociale, è essenziale essere individui aperti, chiari, decisi e soprattutto disponibili e pervicaci, sensibilizzati e motivati al rapporto con chi fa continue richieste senza spesso essere in grado di dare, con chi rifiuta ogni frustrazione, con chi è sempre pronto alla fuga e all'abbandono ma continuamente mette alla prova l'interesse e la disponibilità dell'altro[1].

Loren Mosher, il fondatore della comunità Soteria House in California, giunge ad affermare che l'unica terapia possibile consista nello stare insieme allo psicotico nel contesto di un ambiente sociale piccolo, casalingo, calmo, di sostegno, protettivo e tollerante, in cui l'équipe curante fondi il suo operare nella costruzione di relazioni non intrusive, non controllanti, ma attivamente empatiche. Fagioli sostiene che l'affetto è "prassi di essere presente", ma quale pregnanza deve avere questo "stare insieme"?[2]

La comunità intesa come costante ricerca di vivere insieme sempre più intensamente, nella ricerca di una comunicazione vera, utilizzando tutto ciò che la psicoanalisi e le scienze umane e sociali hanno dimostrato essere essenziale, può essere una modalità di risposta della comunità alla psicosi.

Nella psicosi, al di là delle interpretazioni etiologiche di tipo psichiatrico biologico, si riconosce, come fattore patogenetico e come prodotto stesso della patologia, un processo circolare che si autoalimenta, una perversa dinamica sociale consistente in un'innumerevole serie di fallimenti. Appare pertanto essenziale nel processo riabilitativo, dalla ricostruzione paziente di una comunicazione autentica, con interventi che pur partendo dall' hic et nunc siano rivolti in senso orizzontale e verticale: orizzontale in un progressivo radicamento nel sociale, verticale nel senso di un recupero della propria storia con la riappropriazione di un senso di continuità dell'esistere che il soggetto ha perduto. L'applicazione della teoria psicoanalitica in una accezione ortodossa si è dimostrata ormai inattuabile con lo psicotico. Non è sufficiente l'interpretazione, la costante creazione di nessi e l'elaborazione transferale, per attivare un processo trasformativo che permetta di superare l'enorme angoscia che l'esistere procura allo psicotico, perché egli vivrà come aggressioni siffatti approcci e tenderà alla fuga (in senso fisico o mentale).

La fantasia-desiderio di ritorno all'amnios materno, che si esprime nel delirio onnipotente, non può esser semplicemente negata. La storia terapeutico-riabilitativa dello psicotico è la storia della separazione, della rottura non traumatica della simbiosi. Per questo la Comunità Terapeutica si propone come "contenitore" alternativo all'utero e alla fantasia onnipotente: un contenitore che protegge da un confronto diretto impossibile con la realtà sociale e/o familiare, che fornisce soluzioni ai bisogni primari, che offre gratificazioni, ma legate ad un rapporto interumano che non si è potuto stabilire precedentemente e che rappresenta l'ideale continuazione del cordone ombelicale e l'unico vero antidoto alla follia. Il rapporto interpersonale è anche il tramite con la realtà e dovrà resistere agli attacchi invidiosi, distruttivi dello psicotico che non crederà ad una vera volontà di comunicazione, che proietterà nell'operatore la sua aggressività. Per questo è necessaria una presenza costante e non limitata ad un setting ortodosso. Lo psicotico tende ad impossessarsi dell'altro, a non mettersi in rapporto. Attraverso un meccanismo di incorporazione orale, dominato da una fame insaziabile e rabbiosa, desidera possedere e dominare la realtà fisica e immateriale dell'altro nell'illusorio tentativo di far proprio quel potere assoluto, quell'onnipotenza reale materna presumibilmente subita ed invidiata nella concreta esperienza primaria. Si dovrà pertanto proporre pervicacemente un uso non identificatorio della fantasia e della creatività attraverso un operare concreto, attraverso un esempio condivisibile da parte dello psicotico delle potenzialità non invidiose e non distruttive della nostra mente, offrendo un "contenitore" solido, resistente cioè ai suoi attacchi, elastico; una struttura flessibile alle sue esigenze ma capace di mantenere una sua identità, e tanto accogliente e stimolante da permettere di riattivare canali comunicativi chiusi difensivamente. Dovremo permettere l'abbandono della ricerca dei falsi piaceri, alla fantasia onnipotente a favore di un uso fecondo della vitalità ma anche della concretezza, dell'accettazione del limite.

Il contesto in cui tutto questo può avvenire non può che essere un contesto comunicativo globale, una situazione cioè in cui vengano utilizzati da parte degli operatori tutti i canali comunicativi e le modalità espressive in maniera consapevole, attraverso un'adeguata preparazione ed una continua opera di discussione in gruppo e di autorevisione critica.

Questa globalità permette di costituire una dimensione di vita relazionale in cui il soggetto psicotico si senta immerso fin dal primo giorno di permanenza in comunità, sollecitato indirettamente ma continuamente a mettersi in rapporto con gli altri. Questa modalità gli esprime peraltro anche un'apertura, un'accoglienza che senza essere intrusiva nel suo mondo interiore offre in continuazione uno stimolo all'apertura ed allo scambio. Un'accoglienza che non sarà mai passiva, tantomeno di fronte ai suoi possibili attacchi invidiosi e distruttivi.

La possibilità che lo psicotico esca dalla sua dimensione derealizzata risiede nella capacità di riappropriarsi delle proprie emozioni e pulsioni senza esserne spaventato, di percepire il mondo esterno e l'altro come non pericolosi, ma di esempio ed aiuto nell'uso della propria energia in modo creativo, adattivo e non distruttivo. Per questo l'operatore si propone come permanente occasione di confronto dei vissuti, propri ed altrui, delle emozioni che permeano tutta l'attività comunitaria, in una dimensione di vita che inevitabilmente richiede l'abbandono di ogni maschera sociale, formale.

Il giusto equilibrio quindi tra l'adesione, non acritica ma consapevole, alle leggi che rappresentano l'indispensabile struttura portante della comunità da un lato e la partecipazione ai momenti organizzativi e decisionali dall'altro, permette una crescita insieme. La partecipazione tanto al momento decisionale quanto a quello operativo, momenti indispensabili di formazione e rafforzamento dell'Io, dovrà essere quanto più ampia possibile ed orientata ad una convergenza di obiettivi, ma anche rispettosa della volontà dei singoli, senza cadere nella falsa democrazia o nel populismo assembleare né nell'imposizione verticistica e aprioristica. Il confronto con la divergenza di opinioni e di desideri appare come essenziale presa di contatto con la realtà del mondo circostante e distacco dal mondo autistico o delirante.

È possibile prevedere una risposta aggressiva alla frustrazione che il contesto comunitario comporta, ma sarebbe sbagliato aspettarsi sempre una distruttività manifesta. A volte è possibile un acting ma molto più spesso lo psicotico, schiavo di un Super-Io arcaico, sarà talmente impaurito dalla sua stessa rabbia da preferire un'implosione anziché un'esternalizzazione: la risposta forse più frequente è il ritiro, la passività, la dipendenza totale che attiva simmetricamente ed inconsciamente l'aggressività degli operatori. Riuscire a decodificare ed a rispondere adeguatamente a tali comportamenti richiede indubbiamente una approfondita conoscenza delle dinamiche, una particolare disponibilità emotiva ed un solido equilibrio, requisiti indubbiamente preziosi in ogni operatore, ma che devono essere assolutamente presenti nella comunità nel suo insieme, perché non sarà il singolo individuo a riabilitare, ma il rapporto del e col collettivo.

La partecipazione a tutti i momenti operativi e la collettivizzazione sono pertanto essenziali, anche se l'obiettivo è l'autonomizzazione e l'individuazione, nel senso junghiano del termine.

La Comunità non si propone come elemento a sé stante, avulso del contesto sociale, ma come momento favorente l'integrazione nel tessuto abitativo, lavorativo e ricreativo del territorio.

Lo psicotico, nella nostra ipotesi di fondo, è tale per il concorrere di fattori soprattutto psichici e sociali. L'individuo sviluppa le sue capacità mentali e la sua struttura caratteriale in relazione all'ambiente. E' dallo scontro tra la sua fragilità e l'insieme delle sue relazioni che ha preso forma il suo disagio ed è da un nuovo e diverso incontro che può scaturire il cambiamento. C'è quindi di fondo il rifiuto della segregazione istituzionale, ma anche dell'autoemarginazione ammantata di giustificazioni protettive. Con la gradualità e la protezione che ogni caso può richiedere, ognuno avrà modo di confrontarsi con la realtà che lo circonda, frequentando la scuola, lavorando,  andando in discoteca o in ogni altro luogo di ritrovo.

E' da sottolineare però che l'intervento degli operatori non è mirato solamente al membro ospite della comunità, ma allo stesso sociale in quanto espressivo del Conscio ed Inconscio collettivo, che tanta parte ha nella conservazione o nell'abolizione dello stereotipo della follia. Le stesse dinamiche endopsichiche che si sono personificate nel malato mentale (invidia, paura, distruttività, proiettività, passività, ecc.) possono sottendere le risposte del collettivo e non solo minare l'integrazione della Comunità ma anche alimentare la patologia stessa.

Anche il rapporto con i parenti, i genitori in particolare, è fondamentale poiché ben sappiamo quanto lo psicotico abbia legami vischiosi e conflittuali con uno o più membri della famiglia.

Pur in un'ottica analitica non possiamo disconoscere le dinamiche relazionali che sottendono la patologia dissociativa e che molto spesso contribuiscono alla sua cronicizzazione. Abbiamo già espresso le difficoltà di un processo di separazione che, in maniera più o meno mascherata da conflitti edipici, lega indissolubilmente il giovane psicotico al genitore, od anche l'aggressività cieca e invidiosa verso l'onnipotenza del seno materno. Ma non è certo da sottovalutare l'intrusività, la seduttività, od al contrario il rifiuto, la negazione (inconscia) da parte di certi genitori. Sappiamo perfettamente quanto una visita o semplicemente una telefonata riaccenda in termini emotivi o di produzione ideativa, spesso delirante.

E' difficile arrivare con la famiglia oltre una collaborazione puramente formale ma, ciononostante, cercare di attivare anche con loro quel processo trasformativo che quantomeno permetta al figlio di sentirsi più libero dalle problematiche genitoriali o nella migliore delle ipotesi crei i presupposti per un costruttivo rientro in famiglia. Spesso, infatti, alla Comunità rimane solo il non facile compito di gestire i rapporti fra la Comunità stessa e la famiglia, regolando (non sempre limitando) e organizzando nel modo più costruttivo possibile gli scambi (non solo visite o telefonate, ma anche i rapporti economici, il vestiario, ecc.) fra gli ospiti ed i loro genitori.

Non esistono regole restrittive aprioristiche e tutta la vita della Comunità è improntata alla trasparenza.

Dietro ogni scelta apparentemente banale, c'è un sapere analitico che cercherà di creare o utilizzare regole per far sì che non si creino abbandoni o fughe da parte dello psicotico e della famiglia, ma solo separazioni che aiutino a crescere.
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